Oggi, 8 settembre, si celebra la Giornata mondiale contro l’aborto.
Quando una donna abortisce, spontaneamente o volontariamente, si infrange un delicatissimo cristallo, quello della sua femminilità, del “ potere “ di dare la vita, privilegio tutto femminile.
Il dolore che ne consegue, talvolta sordo, profondo, altre volte pronto invece ad esplodere in manifestazioni anche inaspettate, appartiene alla sfera intima, intangibile, che difficilmente potrà mai essere esplicitata in tutta la sua portata.
Una chat per il dolore della donna che ha abortito
Lo vediamo, noi volontarie del Movimento per la vita di Varese, nelle parole di chi ci scrive, in chat, raggiungendoci tramite il nostro sito. Sono ormai centinaia le chat che abbiamo ricevuto, di donne che soffrono dopo un aborto. Sappiamo che, spesso, una donna non osa confidarsi con nessuno, amica, compagno, sacerdote che sia, e preferisce l’anonimato del web. Tocca a noi accogliere, indirizzare verso realtà che possano aiutare a superare il dolore, ad “ elaborare il lutto” per quella vita fragile che non è nata, ma che c’era. ( numero verde 800969878 leggi qui a chi rivolgerti: Ho abortito e soffro, ho bisogno di aiuto. A chi posso rivolgermi?)
Eppure, nell’immaginario collettivo, si tende a negare la verità della gravidanza, della vita del bimbo, dell’esistenza di un’altra, piccola persona: “ grumo di cellule”, “ interruzione di gravidanza”, “ prodotto del concepimento “, tutte espressioni dell’antilingua, tendenti ad anestetizzare la realtà, ad obnubilare la coscienza.
Ma la donna lo sa. Lo sa che nel suo corpo c’è un miracolo, il cui cuore batte a 18 giorni dal concepimento. Lo sa, benissimo.
La donna che ha abortito soffre?
Uno studio scientifico in merito è quello della dott. Lorenza Perfori, che confuta la “ vulgata” secondo la quale la stragrande maggioranza delle donne non soffrirebbe dopo l’aborto, anzi, ne trarrebbe sollievo. Eccone un estratto, per il quale si ringrazia la generosa disponibilità dell’autrice Perfori e di Mary La Rosa, alla quale si deve una sintesi dello studio.
Lo studio Turnaway
Il cosiddetto studio Turnaway, pur essendo caratterizzato da bias di selezione significativi e problemi metodologici vari, è quello che più spesso viene citato dagli abortisti di tutto il mondo, italiani compresi, per dimostrare, tra le varie cose, che la maggior parte delle donne che hanno abortito sono contente di averlo fatto, che non vi sono prove di effetti negativi sulla salute mentale dopo l’aborto, mentre vi sono prove di problemi mentali nelle donne costrette a portare avanti una gravidanza indesiderata.
Selezionare i campioni in modo “pilotato”
Il difetto più grande dello studio Turnaway è l’altissimo bias di selezione delle donne. Reardon spiega che lo studio è riuscito a reclutare solo il 37,5% (n. 1.132) delle donne alle quali era stato chiesto di partecipare (n. 3.045), inoltre il 15,5% delle reclutate aveva già abbandonato lo studio prima dell’intervista di base prevista 8 giorni dopo l’aborto. Lo studio è continuato con interviste telefoniche ogni 6 mesi per 5 anni e, a ogni colloquio che completavano, le donne venivano ricompensate con una carta regalo da 50 dollari ma, nonostante quest’incentivo, al termine dei 3 anni aveva partecipato solo il 27% delle donne reclutate e questa percentuale era scesa ulteriormente ad appena il 18% alla valutazione a 5 anni. Nonostante ciò – osserva Reardon – gli autori dello studio concludono sostenendo che «le donne sperimentavano una diminuzione dell’intensità emotiva nel tempo e, a tre anni, la stragrande maggioranza delle donne riteneva che l’aborto era stata per loro la decisione giusta». Questa conclusione – osserva Reardon – sovrastima chiaramente ciò che i dati dello studio possono effettivamente dimostrare, ma ha subito ispirato molti titoloni di giornale che hanno proclamato come indiscutibile il fatto che la stragrande maggioranza delle donne era contenta di aver abortito, quando in realtà si trattava, sì della stragrande maggioranza, ma di quel 27% appena che aveva partecipato fino a 3 anni.
Una minoranza auto-selezionata (27%) di volontarie – afferma Reardon – non può dirci nulla su ciò che pensa la «maggioranza delle donne»: ciò che pensa la «maggioranza delle donne» rimane semplicemente sconosciuto quando la maggior parte delle donne si rifiuta di condividere i propri pensieri e sensazioni in un dato momento.
Manipolare i dati scientifici e mentire sul dolore delle donne
Dallo studio Turnaway sono nati a oggi quasi 30 lavori. Questa pletora di studi – evidenzia Pike – si presenta apparentemente come un corpo di lavoro ampio e importante, in realtà tutti gli studi successivi si basano sull’unico insieme carente di dati che abbiamo visto. Inoltre – aggiunge Pike – lo studio Turnaway è stato finanziato e realizzato da organizzazioni dichiaratamente abortiste. Esso fa infatti parte del progetto di ANSIRH (Advancing New Standards in Reproductive Health), il quale si adopera per l’accesso libero e gratuito all’aborto, ed è stato finanziato da organizzazioni pro-aborto come la David and Lucille Packard Foundation.
Reardon ha evidenziato in un articolo tutti i difetti del Turnaway study in cui, oltre al bias di selezione già sottolineato, riporta altre distorsioni che hanno contribuito a inficiare le già deboli conclusioni dello studio. La minoranza delle donne intervistate da ANSIRH – afferma Reardon – è atipica, anzitutto perché con tassi così elevati di astensione la probabilità che i risultati siano influenzati dall’auto-selezione è alta, ovvero che il campione analizzato dallo studio sia perlopiù costituito da donne che si aspettavano le reazioni meno negative dal proprio aborto, perché – come suggerisce la ricerca – coloro che sperimentano le reazioni più negative sono meno propense a partecipare alle interviste. In secondo luogo, il campione delle donne può essere stato alterato dallo stesso staff delle 30 cliniche abortive partecipanti, visto che il progetto dello studio prevedeva che spettasse al personale delle cliniche scegliere quando invitare le pazienti a partecipare, è pertanto possibile che siano state escluse coloro che il giorno dell’aborto apparivano chiaramente come le più angosciate e, quindi, le peggiori candidate per lo studio. Costoro avrebbero potuto rifiutare in ogni caso, ma il fatto che nella procedura di reclutamento sia effettivamente mancato un processo di selezione casuale porta di per sé a risultati non generalizzabili a tutte le donne che hanno abortito. Un ulteriore bias di selezione è stato determinato dal fatto che il progetto di studio prevedeva espressamente di escludere le donne che abortivano per sospette anomalie fetali, un gruppo notoriamente
ad alto rischio di disagio psichico post-aborto. L’esclusione di questo gruppo – osserva Reardon – rende il campione esaminato non rappresentativo della reale popolazione di donne che chiede di abortire.
Aborti oltre i 90 giorni, una minoranza di donne che viene assunta come campione determinante per le conclusioni
Un ulteriore aspetto atipico – aggiunge Reardon – è rappresentato dai tre gruppi di donne presi in esame dallo studio: il primo gruppo era costituito da 254 donne che avevano abortito entro il primo trimestre e il secondo gruppo da 413 donne che avevano abortito alla fine del secondo trimestre, entro due settimane dal limite di legge per l’aborto tardivo. Già di per sé il rapporto tra i due gruppi è atipico rispetto alla popolazione generale delle donne che abortiscono, delle quali circa il 90% abortisce entro il primo trimestre. Il terzo gruppo di donne è il vero e proprio gruppo di confronto da cui ha preso il nome lo studio Turnaway, in quanto costituito da 210 donne che avevano chiesto di abortire oltre i limiti di legge (generalmente oltre le 24 settimane gestazionali) e perciò erano state respinte dalle cliniche abortive. Tuttavia, anche questo gruppo di confronto è stato inquinato dal fatto che il 24% delle donne respinte ha poi abortito in un altro Stato o ha avuto un aborto spontaneo. Eppure – scrive Reardon – quando in molte delle sue analisi ANSIRH afferma di confrontare le donne che hanno abortito con le donne alle quali «è stato negato l’aborto», spesso non chiarisce che in realtà sta confrontando le donne che hanno abortito con un gruppo di «respinte» delle quali un quarto ha abortito volontariamente o spontaneamente solo poche settimane dopo. E questo – osserva Reardon – ci porta a un altro problema con i confronti effettuati da ANSIRH: il fatto che non abbia tenuto conto di una storia di aborto precedente o successiva. È risaputo, infatti, che esiste una relazione «dose-effetto», per cui le donne che hanno più aborti presentano maggiormente problemi di salute mentale. Quante donne del gruppo delle «respinte» aveva una storia di aborto prima di portare a termine la gravidanza? E, nel corso dei 5 anni di follow-up, quante donne in tutti i gruppi hanno avuto aborti successivi? ANSIRH ignora queste domande, a ogni modo mancando un gruppo di controllo di donne che non sono mai state esposte all’aborto, lo studio Turnaway non può dirci nulla sulle differenze tra donne che hanno abortito e quelle che non l’hanno fatto.
In sintesi – spiega Reardon – lo studio Turnaway utilizza tre gruppi di volontarie che sono state reclutate attraverso un metodo non casuale che comporta bias di selezione tramite gli operatori delle cliniche, le procedure di ricerca e l’auto-selezione. Inoltre AN-SIRH non è riuscito a registrare, o almeno a controllare, l’intera storia riproduttiva di tutti i soggetti. Il risultato è che le analisi di ANSIRH si sono limitate a due gruppi di donne, delle quali si sa che hanno avuto almeno un aborto precoce o tardivo, e un terzo gruppo di donne che ha chiesto un aborto tardivo, ma delle quali non si conosce la storia di aborti precedenti o successivi. In pratica, il campione e il progetto dello studio di ANSIRH sono così pieni di ambiguità che è impossibile generalizzare i loro risultati in modo significativo.
Lo studio Turnaway non segue criteri scientifici
I ricercatori di ANSIRH – continua Reardon – descrivono spesso il loro studio come «uno studio di coorte longitudinale prospettico» dando la falsa impressione che la metodologia usata soddisfi i criteri di un vero studio prospettico di alta qualità, che raccoglie dati su un campione rappresentativo di persone sia prima che dopo la loro esposizione al tema di riferimento, in questo caso una gravidanza sottoposta ad aborto. In realtà lo studio Turnaway non è uno studio prospettico, bensì uno studio di «serie di casi» condotto su un campione altamente auto-selezionato e con un tasso di abbandono molto elevato.
Un altro grosso problema degli studi di ANSIRH, è la presentazione selettiva dei risultati. Per esempio – scrive Reardon – il risultato principale riportato nell’abstract di uno di questi studi era: «Il diniego all’aborto può essere associato a un maggior rischio di sperimentare inizialmente effetti psicologici avversi, rispetto all’ottenere un aborto», ma dalla lettura dei dettagli si può scoprire che questo «maggior rischio» era stato osservato solo in una singola statistica: i punteggi di ansia solo una settimana dopo che le donne in cerca di un aborto tardivo erano state respinte.
Le donne cui viene negato l’aborto sperimentano minore stato di ansia
Questo risultato, spiega Reardon, non è per nulla degno di nota, sia perché – per quanto riguarda le donne che abortiscono – nel breve termine un calo dell’ansia dopo la procedura è comune anche se altri sentimenti negativi coesistenti (depressione, senso di colpa) possono aumentare. Sia perché, le donne in cerca di un aborto tardivo che vengono respinte continuano comunque a fare i conti con lo stress legato al cercare altre soluzioni, inclusa quella di trovare un altro posto dove poter abortire. Pertanto, non è sorprendente scoprire che, otto giorni dopo, i livelli di ansia delle donne respinte sono leggermente più elevati delle donne che hanno abortito, ciò che invece sorprende – aggiunge Reardon – è come i ricercatori di ANSIRH abbiano potuto trasformare questo singolo punteggio in una dichiarazione secondo la quale le donne «a cui è stato negato l’aborto» affrontano un rischio maggiore «di esiti psicologici avversi» (plurale), una conclusione che è stata poi ampiamente diffusa dalla stampa pro-aborto.
In realtà, i dati dello studio hanno poi rilevato che, dopo questa prima settimana, le donne alle quali è stato negato l’aborto, o che hanno portato a termine la gravidanza, hanno riportato miglioramenti significativi nei punteggi di ansia, depressione e autostima, tant’è vero che i ricercatori ammettono di non aver osservato differenze significative tra i gruppi. Ma quest’ammissione appare solo nei dettagli dello studio, non nell’abstract, né nelle conclusioni, né nei comunicati stampa. Un’altra distorsione dello studio riguarda la conclusione secondo cui le donne che abortiscono sono assolutamente convinte di aver fatto la «scelta giusta», ma questa «scoperta» si basava su una risposta binaria «sì o no» a un’unica domanda, usando termini generici o fuorvianti nello studio.
Tutta la mole di studi pubblicati a oggi da ANSIRH che si basano sul loro studio Turnaway – conclude Reardon – presenta i problemi descritti.
La “scienza” a servizio del male e contro la donna
Le conclusioni di questi studi sono basate su insiemi di dati così carenti e distorti che la vera notizia è come sia stato possibile che siano stati pubblicati, ancor più come siano potuti diventare una notizia da prima pagina. Evidentemente le riviste scientifiche e i revisori erano così entusiasti di fornire una piattaforma alla propaganda pro-aborto che non solo hanno ignorato la metodologia mediocre e le analisi superficiali, ma hanno anche permesso agli autori di pubblicare conclusioni esagerate che andavano ben oltre le evidenze che avevano presentato. Quel che è certo è che le donne e i loro partner meritano di meglio.
Mary La Rosa
(testo cortesemente concesso dalla dott. Lorenza Perfori e pubblicato nel dossier di Provita e famiglia “ Aborto: dalla parte delle donne”.)
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