La bioetica individua i criteri di regolamentazione della prassi e le norme che orientano il comportamento dell’uomo nel momento in cui interviene sulla vita ( L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto): etimologicamente la parola indica il comportamento, l’etica da tenere nei confronti della vita umana. In poche parole, vanno delimitati i confini dell’agire perché  non tutto è lecito, quando si tratta di persone.
Ma chi è persona, quando inizia la vita, quali interventi sono possibili e quali violerebbero la dignità del paziente, sono già interrogativi da far tremare le vene dei polsi, tali tra l’altro da suscitare dibattiti e diatribe ad altissimo livello, senza peraltro facilmente arrivare a conclusioni condivise.

Chiediamo alla dott. Giulia Bovassi, bioeticista, di aiutarci a capire, prendendo anche spunto dall’analisi della proposta di legge d’iniziativa popolare “ Un cuore che batte”, ( della quale abbiamo parlato, tra l’altro,  su questo sito qui e qui ) presentata il 5/12/2023 e in attesa di essere discussa in commissione alla Camera dei deputati.

1) Lei parla del “ dramma dell’interruzione di gravidanza “: chi viene coinvolto in questo processo decisionale?

Al cuore dell’iniziativa, ispirata alla legge del Texas denominata Texas Heartbeat Act, nota per il numero di vita salvate, vi è la ferma consapevolezza che l’evento abortivo, nonostante coinvolga direttamente e/o indirettamente numerosi soggetti, agisce principalmente su due esseri umani in senso fisico, psichico, emotivo e spirituale: il concepito e la madre. Purtroppo il dramma dell’interruzione volontaria di gravidanza è oggetto di un processo di normalizzazione e banalizzazione che ne acuisce la sofferenza individuale (vissuta dalle donne e dalla famiglia del nascituro) e sociale (una cultura dello scarto ha effetti sia sulla considerazione etica, del valore-persona, la sua dignità e accettazione comunitaria, sia per quanto riguarda il problema della denatalità), poiché consolida una forma mentis diffusa tale in cui il figlio è il grande e silenzioso invisibile di un atto, quello abortivo, che in quanto consentito dalla legge allora necessariamente buono sotto il profilo etico. Al contrario, il bene oggetto del diritto precede la sua formulazione positiva; pertanto, se la legge non riconosce né attiene a quel bene naturale di riferimento, discostandosi da esso, ecco che quella legge non ricalca un bene morale oggettivo. In questo caso, ad esempio, il bene oggettivo è il diritto umano inalienabile e proprio di ciascun membro della specie umana, alla Vita.

L’aborto coinvolge sempre tre soggetti

L’aborto non è mai una decisione esclusiva della donna perché sempre dove c’è un nascituro vi sono una madre e un padre, che a loro volta appartengono ad una storia famigliare trasversalmente coinvolta da una nuova vita che si è già intersecata in quella storia. Ciò avviene con molta naturalezza -di norma- quando quel figlio viene accolto e diventa nipote, cugino, ecc. Pertanto, come afferma la stessa legge 194 “interrompere” (e non impedire) una vita che è già in atto, già esiste, ha delle ricadute morali, psicologiche, spirituali su tutti coloro che con quel bambino hanno un legame. L’aborto riguarda il personale sanitario coinvolto che nell’aborto, come spiegava il dott. Mario Palmaro, mette in crisi la natura stessa della medicina che in questo caso non è terapeutica, non cura né si prende cura del paziente direttamente colpito dall’atto abortivo, che non è la donna, ma il bambino. Palmaro chiedeva “Il concepito non è forse a tutti gli effetti un paziente? Non è forse vero che le leggi sulla tutela della madre lavoratrice lo proteggono? Non è forse vero che – quando i genitori vogliono “tenerselo” – i medici trattano quel figlio non ancora nato con ogni cautela (in certi casi lo operano prima che nasca, gli prescrivono medicine, invitano la donna a non bere, non fumare, non esporsi a radiazioni, ecc) e perché?”, rispondo: Per tutelare quell’invisibile. Mi domando e vi domando: il consenso della donna ad abortirlo cambia l’identità del nascituro? è la decisione della madre a fare di lui un soggetto? Ippocrate l’aveva capito più di 2500 anni fa quando nel suo giuramento imponeva a tutti i medici di “non dare a nessuna donna che ne avesse fatto richiesta sostanze per abortire”. Quindi tra i soggetti coinvolti e tra coloro che hanno una responsabilità morale, oltre che spirituale, nel consigliare, nel non sconsigliare, nel favorire, nell’attuare, nel compiere, nel sostenere l’aborto vi sono sicuramente i medici, infermieri o i farmacisti. Per loro l’aggravante è anche sapere dal punto di vista scientifico che cos’è l’aborto.

Inoltre, riguarda la comunità vicina (amici, colleghi, parenti) o lontana (società, politici, legislatori, sacerdoti, e anche chi se ne lava le mani) nella quale il bambino è inserito, sia per quanto concerne statisticamente il problema delle culle vuote al quale, per ovvie ragioni, contribuisce in un senso o in un altro, sia perché viene negata alla società la possibilità di relazionarsi con un suo nuovo membro. Anch’essi hanno, a seconda di come si pongono verso l’aborto e in base al grado di coinvolgimento/responsabilità del ruolo ricoperto, una

responsabilità morale. Privatizzare l’aborto, anche in questo senso, manca di visione complessiva del fenomeno.

2) Nel parere da lei scritto i termini utilizzati, in riferimento alla gravidanza, sono “condizione naturale di valore inestimabile per la vita custodita” e di “ privilegio della madre”. La proposta di legge va nella direzione di accrescere questa situazione?

Obiettivo della Pdl è rendere visibile l’invisibile e dare voce al silenzio, la voce di un battito cardiaco udibile già dalla quinta settimana di gravidanza. La Pdl agisce sulla presa di coscienza di un dato di fatto: l’evidenza scientifica dell’umanità del concepito, contro ogni presunta entità altra rispetto all’appartenenza alla specie umana e alla personeità. A partire da questo dato oggettivo discendono le accortezze, la cura e il riguardo che di norma la società tiene nei confronti della gestante: dai più semplici gesti di cortesia alle misure agevolative nei luoghi pubblici o negli esercizi commerciali, nei luoghi di lavoro, ecc. in cui la gestazione viene considerata una condizione naturale di valore inestimabile per la vita custodita, per la madre cui spetta questo privilegio di accompagnarla fino alla nascita, per la società che di fronte alla gestazione riconosce un dovere di cura verso il proprio futuro. Questo fatto interiormente accertato dalla ragione e dalla coscienza di ognuno riconosce il “valore vita” in gioco e questo valore non subisce alterazioni di sostanza sulla base dell’autodeterminazione femminile. Voluto oppure no, un figlio resta tale per natura.

Obiettivo: tutelare la maternità

L’introduzione nell’art.14 della legge 194/78 del comma 1-bis agisce perciò in continuità con la tutela della maternità, il riconoscimento del suo “valore sociale” e la “tutela della vita umana fin dal suo inizio”, come recita l’art.1 della 194/78, dal momento che l’introduzione del comma 1-bis chiede che, in una situazione critica tale per cui la donna-madre pone se stessa al centro di una scelta tra garantire il diritto alla vita del figlio oppure negarglielo, sia adeguatamente informata orientando la sua decisione ad accogliere la Vita che porta nel grembo. Al fine di evitare interpretazioni erronee occorre ribadire con chiarezza la contrarietà etica all’aborto delle associazioni promotrici, che si limitano in questa sede ad agire laddove lo Stato ha legiferato aprendo alla sconfitta sociale dell’aborto. Non si tratta di adeguarsi tollerando un male morale, bensì di offrire un bene: conoscere l’umanità di quella Vita intrauterina che la stessa 194/78 dichiara un bene da tutelare. Il comma 1-bis si pone, inoltre, a favore del concepito per il quale -è evidente- la speranza di proseguire la propria esistenza in atto.

3) Come si inserisce, questa Pdl, nei doveri del medico e nella relazione medico-paziente?

Il metodo con cui la presente Pdl intende offrire un’alternativa consapevole per-la-vita alla gestante intenzionata ad abortire entra nell’ordine dei doveri deontologici del medico, i quali sanciscono all’art. 20-Relazione di cura, che “La relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull’individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità. Il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura”. In tal senso e in virtù dell’alleanza medico-paziente, quale preziosa struttura relazionale fondata sull’incontro tra una fiducia e una coscienza, viene richiesto dalla Pdl che il medico, in conformità con i suoi doveri professionali e deontologici, fornisca tutte le informazioni necessarie alla paziente (la madre) in merito alla gravidanza e allo stato di salute e vita del concepito, accertandone la presenza (esame ecografico) e la vitalità (battito cardiaco), come informazioni minime da comunicare in ambito diagnostico, così come accade quando, a parità di condizione, la gestante si rivolge al medico curante per accertare lo stato di gravidanza e di salute del feto che intende accogliere. L’obbligatorietà, per il professionista, fa eco, prima di tutto, al dovere deontologico di fornire tutte le informazioni necessarie per costruire con la gestante una comprensione del dato di realtà oggettiva al centro dell’iter clinico previsto per la conferma ecografica della gestazione con datazione e condizioni di salute del feto, in modo tale che il consenso o meno a procedere con l’interruzione avvenga in piena scienza e coscienza della paziente. Il dovere in capo al medico di procedere con gli accertamenti diagnostici fornendo tutte le informazioni necessarie alla madre, indipendentemente dall’intenzionalità abortiva espressa, fa parte non solo di una buona comunicazione medico-paziente alla base di qualunque rapporto di fiducia professionale e umana, bensì della cooperazione tra paziente, consultorio e struttura socio-sanitaria prevista dalla stessa 194/78, in particolare all’art.5 dove riferisce di un colloquio preliminare a seguito degli accertamenti medici finalizzato all’ascolto della donna, delle motivazioni a monte della scelta abortiva e, una volta accertata quest’ultima, “esaminare (…) le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza”. In tal senso, allora, rendere la madre partecipe attiva della visita ecografica e dell’ascolto del battito cardiaco non solo muove in questa direzione di informazione, sostegno verso scelte a favore della vita con supporto e accompagnamento in base alle problematiche evidenziate dalla gestante, ma è un dovere del curante tenuto a compiere almeno un tentativo per rimuovere le cause che porterebbero all’interruzione.

Applicazione completa della legge 194

Una parte essenziale della legge 194/78 che di rado viene applicata. Dimostrare l’essere in atto della vita nel grembo della madre rientra nel diritto di quest’ultima di sapere qual è il bene maggiore in gioco, al centro dell’azione che si accinge a compiere. Senza dimenticare che nei Paesi in cui leggi simili sono entrate in vigore il numero degli aborti è drasticamente crollato e questa è la prova tangibile che informazione esaustiva, maggiore consapevolezza, partecipazione attiva della madre aiutano quest’ultima nella rimozione delle cause abortive. Stante la proposta di legge in oggetto, la libertà della donna rimane garantita dal momento che l’obbligatorietà riguarda il dovere medico, mentre la paziente può scegliere se dare il consenso o meno; può scegliere se guardare l’esito ecografico o meno e se ascoltare o meno il battito cardiaco. Non si tratta di “coercizione soft” e nemmeno di un “ricatto morale”, quanto piuttosto di una presa profonda di coscienza mediante una corretta informazione clinica di quel che anche i difensori più irremovibili di un presunto “diritto all’aborto”, affermano: che interrompere la vita di un figlio nel grembo materno, a prescindere dall’età gestazionale, resta ed è un evento “drammatico” e una “sconfitta sociale”.

Questo perché? Riprendendo la riflessione del giurista Mario Palmaro: «molti dicono che l’aborto è sempre un dramma per la donna. Per cui, siccome la donna soffre tantissimo, come nessuno intorno a lei può capire, allora la legge non deve fare altro che prendere atto di questa sofferenza e rispettarla in silenzio. Altri aggiungono con mestizia che l’aborto è una sconfitta per la società. Per cui, sarebbe bene che il volontariato e i consultori facessero del loro meglio per ridurre il più possibile questa sconfitta. Che certo non spetta alle leggi contrastare.

Tuttavia per essere coerenti con queste affermazioni, bisognerebbe rispondere a una semplice domanda: perché? Voglio dire: per quale motivo l’aborto è un “dramma” per la donna e una “sconfitta per la società”?

L’aborto è sempre un dramma perché comporta la soppressione del piccolo

La risposta è semplice, ma non la si può e non la si vuole dare: l’aborto è un dramma perché implica la soppressione intenzionale di un figlio. Se così non fosse, se si trattasse davvero della interruzione di un processo potenziale, della espulsione di un grumo di cellule, della eliminazione di un fastidioso imprevisto che non è ancora un uomo; beh, se fosse così, per quale motivo parlare di “dramma e sconfitta”? Quando uno va a togliersi l’appendicite, oppure a farsi cavare il dente del giudizio, non si parla di “dramma”». Questa riflessione molto diretta di Palmaro suggerisce alla coscienza di ciascuno che quel fenomeno denunciato inizialmente di progressiva banalizzazione dell’aborto lo investe sia nella condotta personale sia culturalmente e, in seconda istanza, nella prassi quotidiana, di una leggerezza disarmante e offensiva per la dignità intrinseca dell’essere umano, già gravemente compromessa quando viene meno l’ottemperanza verso il diritto alla vita.

Un concetto fondamentale, quello di dignità intrinseca e di lesa dignità, oggetto del recente documento Dignitas Infinita” del Dicastero per la Dottrina della Fede, anche in tema di aborto quale tra i peggiori attentati alla dignità dell’essere umano. Condividendo le riflessioni di Monsignor Antonio Suetta in merito alla pdl in oggetto: «l’arma peggiore della mentalità abortista è quella di favorire l’indifferenza e la privatizzazione della vicenda e, di conseguenza, il migliore antidoto è l’informazione corretta e la sollecitazione costante all’approfondimento e all’iniziativa di prevenzione».

4) Potrebbe spiegarci chi è “ persona” in una visione antropologica forte?

La peculiarità della bioetica personalista è di fondarsi su di una visione antropologica forte, che è quella, come ben spiega Francesco D’Agostino, la persona si definisce come «individuo concreto, incarnato biologicamente in un corpo, che ha una propria natura ontologica, che si manifesta in capacità e comportamenti (in particolare la razionalità), ma non è riducibile ad essi. La teoria ontologica della persona o il personalismo ontologico tematizza la priorità della natura sulle funzioni (siano esse sensitive, razionali, autocoscienti, volitive), ritenendo che l’essere persona appartenga alla natura stessa di ogni organismo biologicamente umano, in qualsiasi fase di sviluppo, a prescindere dalla manifestazione esteriore di determinate operazioni o delle condizioni di possibilità della loro espressione. La persona è distinta dalle sue funzioni, non coincide con esse, le trascende. Secondo la bioetica personalista l’alternativa ontologica è radicale: o si è persona o non si è persona». Questo concetto, in breve sintesi, sostiene che l’essere umano, quindi la persona, si esprime con i suoi accidenti, le sue caratteristiche particolari, ma non è ciò che è in funzione di esse.
Non sono le capacità, una mancanza di patologie, disabilità, debolezze, l’età, la fase di sviluppo della propria vita a rendere la persona degna oppure, peggio ancora, a discriminare tra persone e non-persone. I modelli che aderiscono a questa logica finiscono per supportare logiche e politiche che pretendono di conferire dignità ad alcuni esseri umani ed escluderla ad altri, prevaricando sul principio di uguaglianza sostanziale. Livio Melina ribadisce efficacemente questo concetto essenziale, affermando che «riconoscere le persone come persone si rivela così il primo e fondamentale dovere e anzi come il fondamento radicale di ogni altro successivo dovere», sicché proclamare e tutelare una dignità della persona e il carattere inviolabile e indisponibile della sua vita è un dovere in quanto si tratta dei suoi beni fondamentali, delle radici dei diritti umani nella loro accezione originaria.

5) Cosa dice la scienza in riferimento all’embrione umano?

Oggi la scienza ci informa di quattro fatti fondamentali: 1) Lo zigote è un organismo umano nuovo quando lo spermatozoo paterno si fonde con l’ovulo materno inizia una nuova storia che si chiama embrione; 2) La scienza dice che questo nuovo organismo appartiene alla specie biologica dell’uomo; 3) la scienza dice che lo zigote e un organismo programmato: il genoma è iscritto nei 46 cromosomi del suo DNA. È proprio questo singolarissimo DNA che compone il patrimonio genetico del nuovo individuo umano. È un essere con un progetto e un programma nuovi, mai esistito prima e che mai si ripeterà e dal quale continuerà a svilupparsi;

4) La scienza dice che nell’embrione la crescita e lo sviluppo avvengono in modo coordinato, continuo, graduale. Non solo, rispetto al passato nel quale le tecnologie di diagnostica prenatale e l’embriologia non permettevano di toccare con mano l’evidenza dell’esperienza materna vissuta dalla gestante durante la gravidanza e con essa perciò la prova scientifica -per così dire- dell’umanità del concepito, oggi ciò è innegabile. A sfatare un luogo comune per cui sarebbe la religione, cattolica nella fattispecie, a conferire questa umanità a ciò che per la medicina risulta un “prodotto del concepimento” o un “grumo di cellule”, sono gli sviluppi all’avanguardia dell’embriologia e delle neuroscienze (interessanti gli studi sulla neurosensorialità  del feto, ad esempio), che oggi dimostrano in modo granitico che quel figlio è soggetto e non oggetto. Fin dai primi giorni di vita (6/8 giorno) si instaura il cosiddetto “cross-talk” materno-fetale: un dialogo incessante fatto di scambio di segnali immunologici, biochimici e ormonali, che consente alla madre di riconoscere il figlio e di poterlo accettare nell’impianto.

Qualche nozione tratta dalla letteratura in merito a ciò che la tecno-scienza ha da dirci sulla vita prenatale: 1) a 6 settimane sono verificabili i primi movimenti di allungamento, rotazione del capo, braccia e gambe; a 10 settimane le mani vengono portare al capo, al viso e alla bocca che sa già chiudersi, aprirsi e inghiottire; a 15 si visualizzano movimenti mandibolari e coordinamento tra arti e parti del corpo come il cordone ombelicale con il quale interagisce; dalla 12 e 13 settimana ha il singhiozzo, deglutisce; 2) la vita intrauterina è la prima parte dell’esperienza esistenziale del bambino, che qui inizia la propria personalità mediante la coesistenza con la madre e apprendendo suoni, gusti, stimoli neuro-psicologici che garantiscono lo sviluppo cerebrale; 3) gli studi più recenti accertano la presenza di un evidente sviluppo psico-emotivo fin dalle prime settimane constatando l’aumento di volontarietà e creatività, in particolare nel feedback tra mondo intra ed extra-uterino; 4) molti studi parlano di sincronizzazione e correlazione tra frequenza cardiaca della madre e quella fetale; 5) sono dimostrate esperienze di ricordo remoto della vita intrauterina e l’influenza dello stato emotivo della madre con quello fetale.

L’embrione orchestra attivamente il suo destino

Anche il British Medical Journal ci informa che «l’embrione non è passivo, ma orchestra attivamente il suo destino» e così il neonatologo di fama internazionale Carlo Bellieni, membro della European Society of Pediatric Research, del Direttivo Nazionale del gruppo di Studio sul Dolore della Societá Italiana di Neonatologia, della Pontificia Accademia Pro Vita e del Comitè Scientifique des Journèes Francophones de en Nèonatologie, in molteplici interventi, ancor più nel suo testo “Sento dunque sono”. Sensi e sensazioni del feto illustra con accuratezza quanto to avviene nella cavità endouterina in qualità di “apprendimento prenatale”: già alla terza settimana gestazionale, dopo soli 22 giorni, l’organo cardiaco è presente e pronto per avviare il suo funzionamento (dalla settimana successiva batterà 80 volte al minuto), nonostante le dimensioni del concepito, pari a una «capocchia di spillo»; tra la sesta e l’undicesima settimana cresce di circa 7 cm e si apre una finestra vitale in cui si delinea come destrimano o mancino e porta il pollice alla bocca, come spesso si vede in sede ecografica; la dodicesima settimana è altrettanto significativa poiché il sesso cromosomico inizia lo sviluppo genitale a seconda della definizione genetica maschile o femminile e, incredibilmente, gli organi riproduttivi «compiono però già la loro funzione: infatti le ovaie fanno scorta di ovuli e i testicoli producono testosterone». Addirittura, nell’ultimo periodo della gravidanza, l’ecografia 4D constata attività REM nel sonno del bambino, («sappiamo che questa è la fase in cui si sogna») registrata grazie all’osservazione del moto oculare.

Tutta la disamina sulla crescita intrauterina è formidabile, lascia estasiati, ma un’informazione tra molte continua a penetrare le coscienze di chiunque ne venga a conoscenza, così com’è accaduto nel momento in cui la scoperta giunse al mondo medico-scientifico: il dolore fetale, captato secondo la metodologia sensoriale e la sperimentazione osservativa diretta. Fino a non troppi anni fa – già prima degli anni Ottanta – la medicina era ignara di questo fattore, anzi supponeva che il feto non potesse provare dolore in alcuna misura. Quando si insinuò il dubbio scientifico sulla percezione del dolore del bambino prematuro non ancora nato, le ricerche mostrarono notevoli risposte del nascituro allo stress accusato ogniqualvolta vi si inseriva un agente esterno (ago) nell’addome materno per ragioni prettamente terapeutiche: egli subiva «una reazione lenta del cortisolo e delle endorfine, 10-20 minuti, e una risposta molto rapida della noradrenalina, esattamente come nell’adulto. Questa situazione appariva con chiarezza sin dalla 18a settimana di gestazione ed era indipendente dalla risposta allo stress della madre».

Questi brevi cenni medici (l’elenco potrebbe proseguire incalzandone molti altri ancora) non esauriscono la problematicità nello storico e, purtroppo, sempre più acceso scontro tra anti-abortisti e pro-choice, ma applicano innegabilmente un cerotto al divario tra scienza e fede o medicina ed etica per coloro che da un lato tendono a provarne l’inconciliabilità e dall’altro sistematizzano questa angolatura accusando di a-scientificità posizioni morali contrarie rispetto alla legittimità dell’aborto procurato volontario e a qualsiasi sperimentazione, commercializzazione, manipolazione embrionaria. La scienza non solo ci dimostra l’umanità del concepito, bensì l’esistenza in lui di un “io prenatale”, cioè una soggettività relazionale. Afferma infatti Bellieni: «dal momento del concepimento non esiste nessun momento magico: lo sviluppo neurologico continuerà per anni.

Da quando due cellule si sono unite per formarne una nuova, con un DNA diverso da quello di padre e madre, siamo di fronte ad un individuo.

La coscienza apparirà: per ora è solo potenziale; ma altrettanto si può dire di ognuno di noi quando dorme. Si dirà: ma chi dorme poi si sveglierà, basta aspettare.

Giusto: per l’embrione vale lo stesso criterio: basta aspettare e la coscienza appare. Diceva Anna Arendt: “l’uomo non è fatto per morire, ma per iniziare”. Lo stupore verso l’alba della vita apre enormi porte alla ricerca scientifica. Negarlo è un triste oscurantismo». Lo stesso concetto, ovvero che non esiste alcun salto ontologico e nemmeno biologico in grado di “trasformare” un entità astratta, impersonale, in essere umano, viene espresso, paradossalmente, da coloro che sostengono la legittimità etica, quindi biogiuridica, dell’aborto al nono mese di gravidanza (oggetto di dibattito e in alcuni Paesi di tentata legalizzazione) e l’aborto post-nascita (infanticidio), per una sorta di correttezza logico-argomentativa: non esiste -lo afferma uno dei più grandi bioeticisti e sostenitori dell’aborto post-nascita, Peter Singer- alcun salto biologico che produca un cambiamento di stato ontologico dal non essere uomo all’essere persona. Pertanto ciò che si elimina a sei settimane di vita, ad esempio, non è ontologicamente diverso da ciò che si eliminerebbe un minuto dopo la nascita.

“Natura non facit saltus “

Il concepito, dalla fecondazione in poi, allora, procede il proprio sviluppo seguendo i cosiddetti “principi epigenetici ” non solo di gradualità, continuità ininterrotta (senza cesure né salti) e autonoma, coordinazione biologica di tutte le sue attività/sviluppo, ma anche come unità biologica. Egli, pertanto, incarna un nuovo individuo, biologicamente e geneticamente unico, distinto dagli altri esseri umani e irripetibile; un organismo umano e programmato, frutto (in linea di massima a causa delle tecniche di fecondazione in vitro, di surrogazione, ecc) della storia di due identità, un uomo e una donna, la cui unione feconda ha dato l’incipit ad un’inedita storia umana già inscritta nell’istante della fecondazione. Come ciascuno di noi, quel figlio, appartiene fin da subito alla storia dell’umanità in quanto parte della specie umana. Da quanto detto, se ne deduce che non ci sono nel suo sviluppo salti di qualità per i quali sia possibile determinare il suo inizio ad essere individuo da un determinato momento. Da quanto detto si evince inoltre, che ognuno di noi nella nostra fase embrionale non è stato né inerte né eseguito in modo passivo o per opera della madre, ma essendo un progetto orchestra autonomamente in sinergia con l’ambiente uterino nel quale è ospitato, un suo progetto di cui è attore principale. Pertanto l’affermazione tanto diffusa per cui “il corpo è mio e decido io” a supporto di un presunto “diritto all’aborto” è scientificamente errata, dal momento che la tecnica abortiva agisce sul corpo, sulla vita, sull’identità di una persona diversa dalla madre e, aggiungo, una persona che dal concepimento in poi resterà come presenza cellulare nel sangue materno fino a circa 30 anni dopo il parto, un fenomeno oggi molto studiato che prende il nome di microchimerismo cellulare fetale.

L’obiezione per cui si genera un conflitto tra collocazione del feto nel corpo della madre e autodeterminazione di quest’ultima a discapito di un altro individuo, che nella cultura femminista che ha portato in essere la similitudine tra aborto e diritto (rientra nei cosiddetti “diritti riproduttivi negativi”), prima di essere riconosciuto (quando lo è) nella sua umanità, viene considerato un problema di natura (giogo biologico della gravidanza) e sanitario (patologizzazione della gravidanza) da curare (quindi estirpare). Un passaggio fondamentale in questa visione è il venir meno di una visione antropologica dell’essere umano unitotale, dotato e determinato (senza sconfinare in alcun biologismo riduzionista) anche dalla sua natura biologica che ne incide l’identità e l’esperienza sociale. La gravosità del dilemma che l’aborto comporta, non riguarda unicamente le circostanze (non si fraintenda: dolore, sofferenza, timori e solitudine opprimenti sulla sorte della famiglia coinvolta hanno necessità di essere accolti e trasfigurati. Ciò che si intende decretare con fermezza non è smorzare i fattori scatenanti la scelta abortiva, ma evidenziare che nessuno di essi vale una vita umana, trascendente l’immanenza e irriducibile a criteri di proprietà), bensì lo statuto dell’embrione umano in quanto persona, perciò è radicalmente un affare etico e profondamente portavoce della risposta che la società odierna decide di conferire al tipo d’uomo che vuole essere.

6) Si può parlare di “ diritto naturale del concepito ad esistere”?

Da quanto detto emerge spontaneamente il carattere umano dell’embrione, prima ancora che da un punto di vista filosofico o giuridico, da un punto di vista scientifico e fenomenologico osservando le indagini qualitative e quantitative sul suo organismo in evoluzione. Egli non è qualcuno in potenza, ma è persona in atto. La sua umanità non si acquisisce gradualmente, ma per istanti nel momento stesso in cui inizia questa sequenza di crescita (la fecondazione). La domanda sull’embrione è la domanda sull’uomo. Sostenendo l’inumanità -quindi assenza di dignità- del concepito in talune situazioni socialmente acquisite come consone e giuste (aborto, ad es.) in base ad un principio di normalità, necessità o normo-funzionalità secondo cui è essere umano se vi è il consenso a proseguire la gestazione, ed è essere umano degno colui che detiene condizioni di sviluppo, efficienza, struttura, qualità, in definitiva prestazione, tali da soddisfare dei canoni di perfettibilità o accettazione giuridica, viene reciso il principio di accoglienza sul quale si fondano solidarietà e sussidiarietà.

In ciascun essere umano, infatti, permane lungo tutto il corso della sua esistenza a causa proprio della sua condizione naturalmente precaria e deficitaria, una tensione fra ciò che egli è originariamente e ciò che egli non è ancora, sulla scia dello sviluppo. Questo ha da sempre garantito quella misura di tollerabilità e dovere di assistenza alla vulnerabilità perché tratto comune, seppur in forme e gradi differenti. Ciò implica, come per l’adulto, l’adolescente, l’anziano, il malato terminale, ecc. che anche l’embrione detenga quel valore-persona inalienabile riconosciuto e da tutelarsi, a prescindere dall’impercettibilità delle dimensioni, della presenza o dall’incompiutezza di certe funzioni o sviluppo somato-organico (teoria funzionalista), oppure dalla comprovata capacità di provare piacere/dolore (utilitarismo etico/sensismo): egli ontologicamente, per essenza non subisce modifiche alla sua natura che è già e permane, a priori. La fase dello sviluppo non incide, non muta la sua natura umana. Come spiega Laura Palazzani «in potenza non è la natura umana, ma semmai sl’attuazione completa delle capacità che per esplicitarsi necessitano della maturazione biologica, psichica e sociale. Ne consegue che l’embrione è già umano a tutti gli effetti, in quanto, pur non essendo ancora manifestate in atto, tutte e al massimo grado le proprietà, sono presenti le condizioni che costituiscono il supporto necessario del processo dinamico ininterrotto e progressivo che passa attraverso fasi successive che consentiranno l’attuazione di tali caratteri (sensività, razionalità, volontà, relazionalità)».

Posta l’umanità fenomenologica e quella ontologica, consegue un dovere globale di rispetto, beneficenza e non maleficenza nei confronti del nascituro così come viene prescritto verso ogni altro essere umano in virtù della natura che possiede. Dovere di tutelare e dovere di non distruggere o utilizzare, consapevoli del discrimine ontologico fra cose, animali e persone. Ne consegue il diritto naturale del concepito ad esistere, come anche per lui, primo e fondamentale di tutti i diritti. La dignità umana, identificazione universale alla base degli originari diritti dell’uomo, non è qualcosa che l’essere umano acquisisce o attende gli venga conferito esternamente, bensì può essere unicamente riconosciuta in virtù di una concezione di sacralità legata all’appartenenza alla specie umana. Ecco perché l’uomo è degno e la sua vita inviolabile a prescindere dalle condizioni in cui versa. Questo sottostà al principio di uguaglianza. Usando le parole del filosofo Vittorio Possenti «la persona è primitiva; non si deduce da nulla e non si può ridurre a oggetto» ed è questo assunto che richiama l’inviolabilità della vita umana e l’indisponibilità morale della persona. Possenti spiega che «al momento del concepimento accade una trasformazione sostanziale, ossia la formazione di una nuova realtà sostanziale (il concepito), e nel fatto che da allora in avanti non appaiono ulteriori trasformazioni sostanziali, ma solo accidentali: accidentale che non vuol dire secondario. (…) Diventar persona è un atto non un processo (…) la concezione gradualistica di persona include una concezione gradualistica dei diritti dell’embrione, di modo che l’embrione non possiede la stessa ampiezza dei diritti del nuovo nato (…) Il diritto fondamentale alla vita dell’embrione umano richiede la cura minima richiesta da un essere umano in ogni stadio di sviluppo: essere sostenuto in questo processo e non essere distrutto».

Non esiste il concetto di pre-persona

Il personalismo ontologico rifiuta categorie come quelle adottate dal famoso Comitato Warnock di “pre-persona” (il feto), quasi-persona (il neonato), semi-persona (l’anziano provato dalle condizioni in cui versa o dallo stadio avanzato dell’età), non più persona (stati di coscienza alterati – tipo stato vegetativo), che come è evidente aprono il ragionamento etico a legittimare pratiche eutanasiche, eugenetiche, sperimentazioni e manipolazioni a seconda di come viene inquadrato il materiale biologico interessato, sia esso al primo giorno di vita intrauterina o al centesimo di vita extra-uterina. Il principio tomista di riferimento insegna che “operari sequitur esse”, cioè per agire e se l’agire contribuisce ad affermare una personeità, è necessario dapprima esistere. Pertanto, riprendendo D’Agostino, «il diritto a nascere include in se stesso e fonda tutti i diritti costituitivi della persona, il diritto a essere rispettati nella propria identità, a non essere strumentalizzati per alcuna ragione, ad essere considerati come portatori di una specifica dignità». Riprendendo ancora una volta l’analisi di Possenti: «la dignità dell’uomo è parola vana se non ha la sua radice nel fatto che ogni essere umano è persona, ossia una sostanza individuale di natura spirituale. Come non possiamo pensare che esista vita umana se non in esseri umani, così neanche che esistano esseri umani che non siano persone, perché non si conoscono modi di esistenza della natura umana che non siano personali. In sintesi: l’esser persona sembra l’unica modalità di esistenza che conviene alla natura umana. Forse alludendo a questo Tertulliano affermava:

“È già uomo colui che lo sarà”. Sulla scorta di tali elementi apparirebbe dunque appropriato parlare dell’embrione umano non come di persona potenziale, ma di persona attuale dotata di alta potenzialità di sviluppo.

7) La legge 194/78 in Italia ha di fatto soppresso più di 6.000.000 di piccole persone umane: cosa ci si propone con l’introduzione del comma 1-bis dell’articolo.14?

La speranza più profonda è quella di offrire la possibilità, per le madri, di darsi e di avere un’alternativa. Come spiegavo non vi è nella pdl un’obbligatorietà con sanzione per il medico e tantomeno alcuna ripercussione sulla madre, ma porrà il professionista nella condizione di dover far presente alla gestante, che ha l’occasione, forse unica se nelle sue intenzioni vi è l’aborto, di sentire il cuore battente di suo figlio. Il suono del battito risuona nella coscienza e anche una sola coscienza risvegliata può significare, letteralmente, un bimbo in braccio, cioè una vita salvata. Si propone, perciò, di aiutare la donna a non trascorrere l’intera esistenza con il rimorso del figlio che aveva e ha deciso di non avere, nella consapevolezza che la sindrome post-aborto è una condizione che affligge gravemente le madri e, in tal senso, si può dire essere una pdl attenta al bene della donna; ed è un pdl che certamente si fa carico di quei 6.000.000 di bambini e risponde al dovere morale di garantire ai prossimi il diritto a nascere, il diritto a non essere ignorati. Ricordiamo che l’indifferenza, soprattutto quando ideologica, è una violenza crudele.

8) Nel parere da lei espresso in riferimento alla proposta di legge, sono citati professionisti di grande spessore internazionale, quali il Prof. Carlo Bellieni e  il dott. Francesco D’Agostino, ma anche esponenti illustri del mondo cattolico, come Mons. Suetta e San Giovanni Paolo II. Scienza e fede possono trovare un terreno comune?

Nel diritto alla vita, ogni essere umano è assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come qualcosa di cui disporre; che riconosce senza esitazione la differenza tra soggetto e oggetto. Di fronte all’enormità di talune questioni, così radicate nell’umanità stessa, l’appello è universale: «non ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l’ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali».

Posto questo, scienza e fede possono e devono muovere i propri passi in un sodalizio che storicamente è già affermato anche nei suoi più profondi benefici. L’idea che le questioni etiche non siano oggetto d’interesse per uno Stato laico, significa confondere la laicità con il laicismo e ignorare che l’essere umano, proprio in quanto tale, nel momento stesso in cui muove la volontà decisionale compie scelte di natura morale. Il patrimonio che la Chiesa ha lasciato in tema di teologia morale è straordinario e la natura sapienziale di questo patrimonio continua a ispirare scienziati da tutto il mondo, che con umiltà riconoscono non solo il valore inalienabile della dignità umana, della vita e dell’essere umano, bensì la sua sacralità. La fede aggiunge questa sacralità. La sacralità di creature la cui vita è accolta come dono, non possesso, di cui prendersi cura anziché manipolare, scartare arbitrariamente secondo leggi del più forte o l’egemonia del dirittismo che muove istanze prevaricatrici dell’uomo sull’uomo. Lo testimonia la storia della bioetica, nel contesto specifico dell’aborto anche la recente introduzione dell’aborto come diritto nella Costituzione francese, che comunica al mondo intero come la prospettiva post-moderna e nichilista abbia invertito il sentire comune di un dovere verso la vita, in uno scandalo e denuncia verso coloro che mantengono fedeltà a questo dovere nel contrasto all’IVG e di considerare il diritto a dare la morte come nuova identità dell’antico diritto alla vita. Oggi cercare misure a favore della vita genera scandalo, timore, odio e discriminazione; viceversa, allinearsi ad una cultura dello scarto, della morte, è considerato progresso, finanche segno di civiltà.

Quindi, come ho dimostrato nella relazione di accompagnamento e qui in questa bella intervista, dal dato scientifico consegue quello bioetico e la fede nulla toglie a questo riconoscimento, semmai aggiunge. La stessa Dignitas Infinita lo ricorda: “Si dovrà, pertanto, affermare con ogni forza e chiarezza, anche nel nostro tempo, che «questa difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in sé stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla fede, “ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell’uomo”.

l’intervista è stata realizzata nel corso della mia trasmissione a Radio Maria “ Tavolo pro-life “ e si può ascoltare a questo : https://radiomaria.it/puntata/tavolo-pro-life-15-04-2024/

Si può leggere qui l’intero parere della bioeticista dott. Giulia Bovassi, presentato alla Camera dei Deputati:

https://documenti.camera.it/leg19/pdl/pdf/leg.19.pdl.camera.1596.19PDL0075020.pdf

Vittoria Criscuolo