Affrontiamo il tema del lavoro attraverso le pagine del libro del dott. Stefano Parenti, psicologo e psicoterapeuta a Milano, co-fondatore di Family Care, Centro Servizi per adolescenti, lavoratori e famiglie. Nel suo libro “Il tuo lavoro ha un senso?” (ed. Sugarco, 2020), egli affronta il malessere, un certo male da lavoro, nei giovani e meno giovani.
Sono del resto molti i giovani italiani che non lavorano, quasi un terzo. Quelli che invece hanno cercato e trovato un lavoro, non di rado, dopo i primi anni di slancio entusiastico, finiscono per smarrirsi, si avviliscono fino a non sapere più cosa fare, come ritrovare il senso del loro lavorare. Non si può infatti lavorare solo per il guadagno, per il sostentamento di sé e della propria famiglia. Né si può lavorare solo per fare carriera, questa motivazione non basta per colmare i propri bisogni di pienezza di sé.
Il dott. Parenti articola la sua risposta alla domanda di senso lavorativo iniziando con questi quattro punti:
– procurarsi il necessario per vivere
– educare gli istinti e gli affetti
– educare al combattimento contro la pigrizia
– perfezionare la capacità di amare.
Quando si recupera il senso del lavorare, si va ben oltre il guadagno e si giunge al “gusto” di fare bene il proprio lavoro, qualunque lavoro.
Procurarsi il necessario per vivere
Il primo significato del lavorare è di certo il potersi mantenere. Alla fine della scuola, sia che si decida di proseguire gli studi o che si scelga di interromperli, si deve affrontare il problema del proprio sostentamento. E’ una necessità importante per chi, subito dopo la fine della scuola superiore, intende e può lasciare la propria famiglia d’origine per iniziare a vivere in modo indipendente, oppure per chi, dovendo proseguire gli studi lontano da casa, ha bisogno comunque di aiutare la propria famiglia nell’affrontare i costi universitari.
L’ideale è trovare un lavoro part-time, un alloggio senza pretese e vivere in economia, secondo una formula minimalista, come molti giovani oggi sanno fare per diventare uno studente-lavoratore. E’ una soluzione che richiede sacrifici perché ci si deve accontentare del tipo di lavoro che si trova, si ha costantemente la necessità di risparmiare e il tempo libero è ridotto al minimo.
Contemporaneamente però questa scelta offre moltissimo dal punto di vista della crescita e della soddisfazione personale. Infatti, riuscire a mantenersi e a vivere indipendenti, aumenta la conoscenza di sé, degli altri e del mondo della professione. Inoltre, migliora l’autostima e rende sempre più sicuri delle proprie capacità. Non è di certo facile mettersi a studiare dopo aver lavorato diverse ore al giorno. Oggi però con lo smart working, si perde molto meno tempo per gli spostamenti e si recupera tempo prezioso da dedicare allo studio. La risorsa comunque più importante è dentro di noi e si chiama volontà; volontà e tenacia sono indici di un carattere determinato che vuole raggiungere i propri obiettivi ed è capace di mettercela tutta, fino in fondo.
Educare gli istinti e gli affetti
Per chi ha concluso gli studi universitari e ha trovato un lavoro, un alloggio per vivere da solo o in condivisione e ha iniziato la propria vita indipendente, l’impatto con la professione può avere esiti diversi, soddisfacenti o meno; ci si può ritenere più o meno fortunati del tipo di lavoro, dei colleghi incontrati e del guadagno raggiunto.
Sempre però il successo e la soddisfazione personale sono legati anche al tipo di personalità, di carattere che si ha e che impatta con l’ambiente circostante. In questo senso, assumere un ruolo all’interno di una struttura lavorativa porta in genere ad un frequente confronto con i colleghi, ad uno scambio comunicativo costante e, spesso, alla partecipazione a lavori di gruppo su progetti interni o industriali o di ricerca.
Nelle professioni più operative oppure in quelle più creative, il discorso sostanzialmente non cambia perché c’è sempre un confronto sistematico con gli altri e si viene “valutati” anche per le abilità di relazione, di organizzazione del proprio lavoro, di teamworking. Un’abilità non si improvvisa ma cresce nel tempo, attraverso prove ed errori. Lentamente si maturano le capacità di parlare, di organizzarsi, di arrivare puntuale, di rispettare gli impegni. Il lavoro forgia il nostro carattere, a cominciare dal primo mattino, costringendo ad alzarsi dal letto, e fa diventare efficienti e apprezzati sul posto di lavoro. Ci rende dignitosi e orgogliosi di noi stessi.
La laboriosità come comportamento abituale rivela che la persona ha un atteggiamento d’amore per il lavoro: ” Il vero amore, per il lavoro come nell’ambito delle relazioni affettive, suppone entrambe le potenze dell’animo umano: intelligenza e l’affetto.” (p. 26). Il primo strumento di lavoro sono le mani, che hanno cura degli oggetti ad esse affidati e svolgono bene il compito, nel modo migliore possibile, con “cura” appunto. La scrivania pulita e ordinata, l’officina dove ogni attrezzo è riposto in ordine al proprio posto, la cucina di un ristorante sgombra, linda e sanificata a fine giornata, e così via. La laboriosità combatte la pigrizia, fino a distruggerla.
Condivido questo concetto espresso dall’Autore e mi vengono subito in mente le mani di mia mamma e di mia suocera in cucina. Erano due donne completamente diverse ma avevano un modo comune, molto simile di afferrare i vari oggetti, stoviglie, le pentole, ecc. Qualunque cosa in verità veniva toccata e presa con calma e attenzione, senza fretta e con cura e una grazia, una delicatezza di tratto tutt’altro che insicura, fragile e approssimativa. Semplicemente lo facevano “bene”; le mani si muovevano sicure nell’aria e, nello stesso tempo, esprimevano un rispetto e un’affezione per le cose, a cui evidentemente attribuivano valore. Anche il cibo era preparato con la stessa attenzione, con impegno e riflessione.
Non lavoravano per il guadagno, lo facevano perché così andava fatto un lavoro… “ben fatto”!
A chi non l’ha ancora provato, risulta difficile capirlo ma chi invece ha la passione del lavoro sa quanto “gusto” c’è nel fare bene le cose, semplicemente per goderne del risultato, perché è anche il “come” si fanno le cose che ci gratifica e ci realizza. Ma non solo.
Fare bene il proprio lavoro significa garantire la sicurezza, a volte la vita, come quando si costruisce una casa, un ponte, si guida una nave… oppure si interviene sul corpo dei pazienti per recuperare la loro salute.
Un tempo per ogni cosa con senso di responsabilità
E’ così che ci si educa, attraverso la calma, l’attenzione mirata a ciò che si sta facendo e il pensiero che ragiona su cosa e come fare, un’attività da svolgere, un tema da studiare o un progetto da pianificare. Senza dimenticare di essere onesti, franchi con se stessi e con gli altri, responsabili di ciò che si fa.
C’è un altro aspetto che ci fa maturare, se lo sappiamo ben gestire, ed è la capacità di porre dei paletti, dei limiti al tempo del lavoro. Nella nostra vita non c’è solo il lavoro, anche se abbiamo 30 anni: abbiamo bisogno di tempo da dedicare agli affetti, alla lettura, allo sport, al nostro hobby e alle amicizie. Se poi abbiamo un partner oppure una famiglia e dei figli, abbiamo il dovere di dedicare loro un tempo di qualità.
Sta lì la nostra capacità di dire “basta”, adesso stacco, adesso smetto di lavorare e penso ad altro. Ci si organizza, si stabiliscono dei tempi e, con puntualità e disciplina, li si rispetta. Per riuscirci, occorre saper dire di no, non avere timore di essere sinceri, franchi invece di cercare sempre e soltanto l’approvazione degli altri; non bisogna essere troppo “concilianti” per paura dello scontro, del conflitto. Perché c’è un proverbio che dice: “Se dai un dito a chi non lo merita, si prenderà anche il tuo braccio.” (p. 55)
Verso la maturità: quali sono le attività che meritano il nostro tempo?
Sono insoddisfatto del lavoro, che fare?
Quando non ho imparato ad organizzare in modo equilibrato le tre dimensioni del tempo, bisogni e responsabilità, il lavoro mi comincia a stare stretto. Quando il lavoro prende il posto di Dio e diventa lo scopo della vita (lavorismo) oppure diventa lo strumento per raggiungere consenso, potere, autostima… il lavoro non è più educativo ma diventa distruttivo. Rischiando il burnout, ci alteriamo al punto da diventare irriconoscibili, stressati, agitati e arrabbiati oppure stanchissimi e bloccati. Portiamo a casa i problemi del lavoro e viceversa con tutte le conseguenze del caso.
Ciò che ci disturba può rappresentare invece un’opportunità: “I problemi non sono solamente una sfortuna che è bene risolvere e archiviare il prima possibile. Sono prima di tutto una opportunità di crescita: interrogano sul senso delle cose. Perché? Perché a me in questo periodo? Che passo in avanti la vita (o Dio) mi dà l’opportunità di compiere?” ( p. 62).
Come si dice “Non tutto il male vien per nuocere” perciò se non possiamo cambiare azienda, smettiamo di lamentarci e iniziamo a percorrere una strada nuova, cambiando il nostro sguardo e perciò il modo in cui viviamo le situazioni. “I terapeuti americani parlano di < ristrutturazione >: se la tua stanza è brutta e inospitale puoi lavoraci affinché diventi un luogo gradevole (magari arricchendola con le foto della tua famiglia, paragonandola a chi sta peggio, pensando ai lati positivi che ha: è tua, è tranquilla, è silenziosa…)” (p. 68)
Scoprire la propria vocazione lavorativa e tendere all’ideale
Ecco i tre passaggi necessari: 1. Quali sono i tuoi talenti? 2. Come questi talenti possono tramutarsi in un lavoro? 3. Dove il mondo ha bisogno di te? Questa terza domanda è la più significativa; è l’ultima ma la prima in verità, poiché è quella che ribalta la logica delle prime due domande. È la questione che permette di cogliere il nesso tra le proprie capacità e il bene comune. Giuseppe Savagnone spiega bene il concetto: “La medicina è nata perché i medici si realizzino? … Così è di tutte le altre professioni e di tutti i mestieri.”
Dimenticarlo significa restare prigionieri di una logica inconsapevolmente narcisistica che, relegando in secondo piano il servizio oggettivo che si dovrebbe rendere agli altri, finisce per falsare il senso del proprio lavoro. Col rischio, paradossalmente, di non riuscire, proprio per questo, a realizzarsi.” Chiedersi < dove il mondo ha bisogno di me? > e subito dopo < che tipo di persona voglio essere? >. L’ideale di sé, i propri valori, svelano il modello di persona che si sta vivendo nelle decisioni che si prendono, nell’agito quotidiano. Lavorare dunque per diventare la persona che sogniamo di essere, al meglio delle nostre potenzialità.