Sono diventata madre a 32 anni e ricordo il mio stupore incredulo di fronte alla nostra creatura; la mia meraviglia era tale che mi inchiodava a questa domanda: “Ma tu, chi sei?” Tante cose avevo fatto fino a quel momento: avevo viaggiato e vissuto all’estero, ero riuscita negli studi, mi ero sposata e avevo “divorato” freneticamente la vita cimentandomi con sfide professionali importanti ma mai avevo fatto qualcosa come la creatura che avevo davanti a me; la grandezza della maternità mi aveva sbalordito: che cosa grande avevamo fatto!
Non è sempre così per ogni nuova madre, le circostanze in cui un essere viene al mondo sono le più svariate, talvolta sono drammatiche per povertà materiale, culturale, morale e spirituale. Emerge spesso negli incontri con donne in difficoltà, la fatica di ripensarsi in una nuova progettualità che investa su se stessi, magari attraverso uno studio o un nuovo lavoro. Infatti, la difficoltà di tirarsi fuori dalla precarietà è tale da impedire la formazione del sogno di un futuro diverso, migliore.
Oggi, nel tempo del “tutto è relativo”, anche il valore della maternità è stato addirittura messo in dubbio. Vi è un movimento di persone a favore dello “childfree life”, uno stile di vita senza bambini, cioè una vita vissuta scegliendo la sterilità, il non riprodursi volontariamente pur potendolo fare. Una presa di posizione contro la maternità e la paternità, considerata un retaggio del passato, una condizione pesante, troppo impegnativa e non necessaria, anzi, di intralcio alla propria realizzazione personale come spiega, sia pure con ironia, la regista Michela Andreozzi nel suo film “Nove lune e mezzo”.
La filosofia childfree ritiene che la maternità come strada per la realizzazione di sé è legata ad una mentalità maschilista, che ha fatto il suo tempo. Secondo una logica di stampo femminista, si sostiene che la donna si può realizzare benissimo anche soltanto nel lavoro, curando la propria persona e la propria immagine sociale, i propri interessi e soddisfacendo ogni desiderio…
Il problema mi sembra mal posto, nel senso che non è tanto questione di stretto legame tra identità e maternità, nel senso di non sentirsi veramente realizzati se non si hanno figli. E’ certo che ci si può realizzare anche senza diventare madri, esprimendo le proprie potenzialità e capacità in modo unico e originale. Non credo che questo sia il punto della questione.
In verità, le statistiche dicono che molti che si dicono childfree hanno di fatto perso il treno, come si usa dire, perché hanno rimandato troppo a lungo il momento di avere figli; è vero che per molti il rinvio della maternità può essere legato al lungo itinerario di studi, alla carriera oppure alla difficoltà di incontrare il compagno di vita dopo una certa età quando si rimane chiusi in un ufficio tutto il tempo. Molte donne childfree rinunciano del tutto alla maternità; sono spesso manager votate alla carriera, per le quali occuparsi dei figli rappresenta una specie di incubo da cui fuggire, un impegno umano e sociale da rifiutare drasticamente per meglio pensare al proprio successo e a cui preferire la propria autonomia ed indipendenza.
Tutto questo mentre tante donne che vorrebbero un figlio e lo cercano disperatamente, non riescono ad averlo. Vi sono anche coppie di omosessuali che cercano disperatamente un figlio. Oggi nel mondo del “tutto è possibile, o quasi”, tra le tecniche di Fecondazione Assistita, il congelamento degli ovociti che è una realtà, consente di rimandare la gravidanza dopo i 40 anni, quindi un modo per mantenere nel tempo la propria fertilità e avere un figlio a 50, 60 anni… Liberi di farlo ma…
Forse il nocciolo della questione è altrove ed è legato al mistero della grandezza dell’essere umano. Diventare madri è sì mettere al mondo dei figli ma nello stesso è molto di più, perché i nostri figli hanno un’anima! Dare un figlio al mondo è un atto di generosità grande, il più grande perché frutto buono che nasce dall’amore di un uomo e una donna. Quella creatura nuova che rappresenta il mistero più grande: diverso da tutti, unico, più o meno intelligente, più o meno sensibile, più o meno capace ma che lentamente nel tempo realizzerà il proprio destino, la propria missione, il proprio compito.
L’attore e scrittore Giacomo Poretti nel n° 39 di “Luoghi dell’Infinito”, nel suo articolo intitolato “Ma l’anima dove si nasconde?” racconta della nascita del suo primo figlio:
Appena nacque nostro figlio, venne a trovarci in ospedale padre Bruno, un carissimo amico, mio e di mia moglie, un vecchio sacerdote che qualche anno prima ci aveva sposati. Non seppe resistere alla tentazione e, come tutti gli anziani che si trovano davanti a un neonato, cominciò a sorridergli e a scherzare con la voce, cercando di attirare l’attenzione di quell’esserino che aveva solo qualche ora di vita. Ci guardò, guardò nostro figlio, poi disse: “Bene, avete fatto un corpo, ora dovrete farne un’anima!”
Alle donne in carriera che preferiscono la sterilità alla puzza dei pannolini dei bambini, auguro la lettura del libro “Il diario di Jane Somers” di Doris Lessing, un vero capolavoro di umanità, che racconta l’incontro tra una donna in carriera in una rivista di moda e una vecchina tutt’altro che deliziosa ma che le farà cambiare la vita, lo sguardo sulla vita e sull’altro.
“Ma poi andai in farmacia e accadde questo.
Vidi una vecchia strega. Stavo guardando una vecchia e pensai, una strega. Questo perché avevo passato l’intera giornata a lavorare a un servizio, Stereotipi di donne, allora e adesso. Quell’allora non era specificato con esattezza, la tarda età vittoriana, forse, la vecchia signora di classe, la madre di tanti figli, la zia nubile e invalida, la Donna Nuova, la moglie del missionario, eccetera. Dovevo scegliere tra quaranta fotografie e schizzi. Tra questi, anche quello di una strega, ma l’avevo scartato. Ed ora era lì, accanto a me, in farmacia. Una donnina minuscola, curva, con un naso che scendeva ad incontrare il mento, vestiti pesanti e polverosi, neri, e qualcosa di non troppo dissimile da una cuffia vittoriana in testa. Si accorse che la guardavo, mi mise in mano una ricetta medica e disse, “Cos’è questo? Me lo prenda lei.” Occhi azzurri bellicosi, sotto ripide sopracciglia grigie, ma c’era qualcosa di meravigliosamente dolce nel suo sguardo.
Ma quanto grande è il valore di una cellula fecondata? Non inferiore a quello dell’essere umano già sviluppato. Con queste parole si esprimeva Erwin Schrodinger, importante matematico e fisico austriaco, tra i più illustri, premio Nobel nel 1933, intento a dare una spiegazione fisica del fenomeno della vita:
Ci siamo spesso chiesti come mai questa insignificante particella di materia, il nucleo dell’uovo fecondato, possa contenere tutto un elaborato codice che riguarda tutto il futuro sviluppo dell’organismo. Una ben ordinata associazione di atomi, dotata di sufficiente stabilità per mantenere il proprio ordine in permanenza, sembra essere l’unica struttura materiale concepibile, che offra una varietà di possibili riordinamenti (isomerici) sufficientemente grandi da racchiudere un complicato sistema di “predeterminazioni” entro un volume spaziale piccolo. Infatti, non è necessario che il numero di atomi in una struttura di questo genere sia molto grande, per dar luogo ad un numero di possibili ordinamenti diversi praticamente illimitato.
E ancora:
Gli elementi costitutori dell’essere vivente non sono opera umana, ma il più bel capolavoro mai compiuto da Dio, secondo le linee della meccanica quantistica.
Parole della Scienza.
Susanna Primavera