Ha vinto la 72a edizione del prestigioso premio letterario la scrittrice Helena Janeczeck con “La ragazza con la Leica”, un romanzo-tributo ad una giovane donna di nome Gerda Taro Pohorylle, compagna di Robert Capa, il cui vero nome era André Friedmann, il primo famoso fotoreporter di guerra, tra i fondatori della mitica agenzia Magnum, e con il quale visse un amore giovane e travolgente, in cui galeotta fu proprio la fotografia e con cui nei loro sogni di gioventù, volevano conquistare il mondo. Nel romanzo il ritratto di Gerda viene steso man mano che la storia si dipana nel tempo, dagli anni ’30 al 1960, attraverso i ricordi, i flash-back e le riflessioni degli amici più vicini e più cari che l’avevano conosciuta, aiutata, ammirata, desiderata, amata e condiviso con lei un periodo importante della loro gioventù “impegnata” su più fronti; negli studi, nella politica, nelle prime esperienze lavorative, nella comune origine ebraica e nella condivisione di ideali di giustizia e di libertà contro l’antisemitismo e le dittature che maturavano allora nelle nazioni europee, il Nazismo in Germania, il Fascismo in Italia e il Franchismo in Spagna.

Gerda emerge come una graziosa ragazza che dai 20 ai 26 anni si trasforma sempre più in una donna incantevole, tutta presa dall’entusiasmo e dal desiderio di fare, nella sua giovane femminilità di donna minuta, bionda e determinata. Il volto parla della sua personalità: è triangolare e volitivo, i tratti sono fini e appare sofisticata nei suoi grandi occhi attenti con sopracciglia sottilissime, secondo la moda dell’epoca, il naso è selettivo, dritto e quasi tagliato di netto sulla punta sottile e la bocca a cuoricino, con il labbro inferiore più sensuale, leggermente sporgente, a goccia; la dentatura è armoniosa e forte e le conferisce determinazione e uno splendido  sorriso! Consapevole della propria bellezza ed elegante per natura, sapeva scegliere con gusto le calze di pizzo e le scarpe dai tacchi a spillo, piuttosto che il basco alla francese, molto di moda all’epoca; il tutto in una “mise” squisitamente femminile, senza bisogno di essere né smorfiosa né arrogante.

Gerda non era certo soltanto bella, era anche “brava” e infaticabile, con lei tutto era possibile e dal nulla poteva prendere forma. Aveva talento da vendere e intraprendenza; lucidità e memoria, velocità di calcolo e rapidità di movimento. Come nella battitura alla macchina da scrivere o nel calcolo mentale dei tassi di cambio: “La nostra Gerda suona la Remington come Horowitz uno Steinway”; era  veloce, precisa, agile e scattante come una tigre più che una piccola gattina. Voleva diventare una donna autonoma, indipendente, libera di pensare e fare di testa propria. Sulla copertina del romanzo, la vediamo fumare e fare l’occhiolino disinvolta, sicura ed emancipata.

Era nata a Stoccarda in una famiglia di ebrei polacchi e aveva respirato fin da piccola l’atmosfera ansiosa, laboriosa ed ingegnosa del padre e della madre ed era cresciuta un po’ oppressa dalle difficoltà e dalle preoccupazioni continue che li spingevano ad emigrare sempre alla ricerca di nuove opportunità e di una maggiore libertà. Testarda ed orgogliosa era perfino finita in prigione,  vittima dell’intolleranza e dell’antisemitismo sempre più feroce all’epoca. Aveva studiato a Lipsia e per sfuggire alle persecuzioni, nel ‘36 si era trasferita a Parigi, allora patria e rifugio di libertà per tanti.

Nella capitale francese aveva incontrato Robert Capa, di tre anni più giovane, vivace, simpatico ed irrequieto con tutti gli eccessi di un’esuberanza sconclusionata ma capace di inventiva, di intraprendenza e di fascinazione e se ne era innamorata. Avevano condiviso la comune fatica di stare a galla in una grande città piena di leggi che limitavano l’inserimento lavorativo regolare degli stranieri, purtroppo non molto diversamente da oggi, ma avevano vissuto comunque i loro momenti anche in leggerezza ed allegria, ricchi di speranze e di sogni di gloria.

Nell’autunno del ’34 Gerda rimane incinta ed è come se la terra si fosse improvvisamente fermata per lei; lo reputa un incidente di percorso, un fastidio inopportuno e intollerabile, un intralcio al suo desiderio di libertà, tanto agognata. E’ in questo frangente che Gerda si mostra in tutta la sua vulnerabilità, è un episodio che la rende molto umana, così giovane e sola a decidere per il raschiamento, imponendosi in tal modo una durezza che l’amica Ruth chiama coraggio ma che in verità è soprattutto una ferita che brucia per sempre nel cuore di una donna.

Nel libro la seguiamo attraverso gli occhi di Ruth con cui si appresta ad andare dalla ginecologa che l’avrebbe fatta abortire:

“… era andata a farsi cavare il seme che le avrebbe gonfiato la pancia.”

“La mite e minuta Signora Pohorylle, solo a immaginare l’esperienza di una figlia rimasta incinta, sarebbe morta di spavento e di vergogna.”

“Il venerdì Ruth l’aveva accompagnata all’appuntamento medico. Si era svegliata all’alba per prepararsi senza premure e poi attraversare mezza Parigi.”

Nella sala d’aspetto, Ruth incontra una coppia in attesa di due gemelli: “… Si erano sforzati di ridere. Avevano parlato di turni straordinari, di come sistemare i gemelli e della dottoressa che li riceveva gratis, perché il diritto di partorire con il minimo di rischio doveva spettare anche a un’operaia, come a qualsiasi  futura madre. Così, quando la prima paziente era uscita dallo studio della compagna ginecologa, Ruth si sentiva ormai del tutto rassicurata. “On y va!” aveva squillato Gerda attraversando leggera la sala d’aspetto, però nell’ascensore si era lasciata andare contro il legno oleoso della cabina. Ruth voleva cercare un taxi, ma Gerda l’aveva insultata, “Sei cretina? Proprio qui davanti?” e aveva insistito per la metropolitana. Ne era uscito un compromesso, suggerito dal primo caffè apparso sul marciapiede, in cui l’amica dolorante si era infilata per farsi dare un bicchiere d’acqua. “Stai lì” le aveva detto Ruth, “vengo a recuperarti in taxi.” Nel tragitto Gerda guardava fuori dal finestrino. Aveva fatto le scale ignorando il suo braccio e fino in camera non aveva detto una parola. “Merde, brucia. La prossima volta nasco maschio!” L’aveva tamponata, aveva cambiato l’assorbente, piegato quello vecchio, portato via il vaso da notte pieno di broda rossa e riportato in camera risciacquato. Era uscita a fare commissioni e tornata per controllare se era tutto a posto. Gerda era sempre in posizione rannicchiata, immobile, non riusciva a capire se dormiva. Più tardi, sbirciandola dalla sua metà del materasso, le aveva fatto tenerezza. Un piccolo gomitolo di membra femminili che respirava russando un poco a bocca leggermente aperta. Il sonno disarma, anche i più combattivi. Il giorno dopo Gerda aveva dichiarato che stava bene pur sentendosi una schifezza (“come un pesce pulito prima di finire lesso”), e non aveva più bisogno di assistenza. …

“Era probabile che l’artefice dell’incidente fosse André …”

L’irrequietezza della gioventù, il suo grande ideale di giustizia sociale, la passione per la fotografia e l’amore per Robert Capa, diventeranno un motore esplosivo che la faranno catapultare in Spagna, come fotoreporter durante la guerra civile, dove saprà farsi ammirare ed apprezzare anche professionalmente. Morirà nel 1937, a quasi 27 anni, a Brunete sotto il cingolo di un carroarmato.

“Il comandante la ammirava, la adorava, secondo Capa, al punto da intervenire di persona per darle l’ordine di ritirarsi all’istante dal campo di battaglia. E Gerda, infischiandosene del generale Walter, aveva continuato a fotografare finché era stato troppo tardi.”

Splendido romanzo che ci riporta indietro nel tempo facendoci comprendere meglio l’attuale presente storico in cui molti problemi di allora politici e sociali non sono ancora stati risolti; un romanzo i cui protagonisti sono giovani appassionati di vita e l’amore, da vero protagonista del romanzo, attraversa le loro vite dapprima come in un valzer e poi come un uragano che travolge e tutto trasforma in tragedia.

Un romanzo infine che risveglia alcuni pensieri sull’amore giovane in tempi difficili:

E se Gerda avesse permesso a se stessa di guardare nel profondo del cuore gli occhi del suo bambino? Forse vi avrebbe visto, come in uno specchio, il riflesso degli occhi di Capa; quegli occhi grandi, buoni e folli, irresistibilmente istrionici che avevano il sapore dell’avventura, del futuro, della gioia piena, della risata sincera, di un lavoro insieme e di una professione che li avrebbe portati al successo.

E se Gerda avesse interrogato il destino sul senso del suo ventre in lievitazione? Se avesse scelto una libertà densa di verità anziché di soggettivismo, forse avrebbe ricucito in sé stessa il rapporto tra coscienza ed essere e  non si sarebbe più percepita come  la donna rimasta “fregata” ma come la donna-madre che sarebbe diventata. La madre, cioè colei che “donando” la vita si eleva maestosa e sublime nella “difesa” del figlio, del più piccolo degli uomini, della creatura totalmente indifesa. Forse non sarebbe più andata in Spagna e nel tempo, dall’alto di una cattedra universitaria, avrebbe potuto raccontare l’avventura straordinaria della fotografia nel giornalismo al tempo di guerra a giovani di nuova generazione.

E se Gerda avesse avuto più fiducia nella vita e nella solidarietà sociale? In fondo, era proprio ciò che l’attraeva e per cui lottava; nonostante la guerra, le ingiustizie, il senso di emarginazione e la precarietà di vita, avrebbe scoperto che ciò che oggi sembra un sacrificio può trasformarsi nel tempo in una tappa, sia pur difficile, di un cammino tutto in evoluzione, in crescita; la strada del “Progetto” di vita in due che porta alla famiglia, in cui ciò che conta principalmente è l’amore dei coniugi che nutre, conforta, sospinge e arricchisce la coppia, giorno dopo giorno, e contagia i figli; un amore creativo che travalica la famiglia e si espande negli ambienti di frequentazione, tra gli amici degli amici e piano piano, senza fare notizia, trasforma quella parte di mondo. Purtroppo spesso nell’amore giovane questo grande progetto ideale manca, per alcuni è prematuro, per altri è un illusione.

Forse Gerda era soltanto troppo giovane e il suo destino eroico l’aspettava…

Se anche tu sei incinta e hai bisogno di aiuto, sappi che non sei più sola; chiamaci o vieni a trovarci allo Sportello in Ospedale, ti aspettiamo!

Susanna Primavera