Piero Scanziani (1908 – 2003), scrittore, saggista e orientalista, ha attraversato tutto il Novecento e oggi torna a far risuonare la sua voce ed il suo pensiero grazie alla riedizione delle sue opere a cura delle Edizioni Utopia.

Il padre era giornalista, Antonio Scanziani, e la madre Linda Tenchio. Trascorse infanzia e adolescenza tra Losanna, Como e Milano. Viaggiò molto, lasciandoci libri indimenticabili sulla meraviglia di essere uomo, sul significato della vita, sulla spiritualità e sull’arte di vivere: Entronauti, Libro bianco, Avventura dell’uomo, L’arte della guarigione e molti altri ancora.

Un’infanzia travagliata tra la Svizzera e l’Italia

Per capire le sue opere, è necessario capire l’autore che ha avuto una vita a tratti travagliata. Da bambino aveva sofferto profondamente a causa della separazione dai genitori, che avvenne molto presto, a partire dai quattro anni. A 10 anni si ritrovò lontano dalla famiglia in collegio, come si usava a quel tempo. Il dolore ed il senso di solitudine provato durante lo sviluppo lo portarono, nel corso della sua giovinezza, a considerarsi ateo, e a chiudersi in se stesso, allontanandosi prematuramente da un approccio spirituale verso la vita.

La tragedia della Prima Guerra Mondiale (1914 – 1918)

In quegli anni, non brillavano nemmeno i suoi studi  e venne bocciato proprio mentre scoppiava la Prima Guerra Mondiale. Nel 1929, a 21 anni, egli viveva a Roma ed era peraltro già padre di famiglia, con un figlio ed un altro in arrivo, quando perse il lavoro e quindi anche la possibilità di mantenere la sua famiglia. Rientrato in Svizzera, trovò finalmente lavoro come giornalista ma il titolare era purtroppo fascista.

La decisione di mantenere quel posto di lavoro, sia pure scelta disperata perché senza alternative possibili, lo marchiò per il resto dei suoi giorni nella società svizzera, al punto tale da perdere ogni possibilità di emergere. Egli chiese scusa pubblicamente di questo errore ma a niente servì. Il senso di oppressione, l’ignominia e la disperazione fu tale da portarlo alla depressione e al tentato suicidio. Ma proprio il giorno dopo il colmo della sua crisi interiore, gli giunsero per posta due libri da leggere da parte di alcuni librai, che gli salvarono la vita. Era il 1939.

Una di queste due opere, di Sri Aurobindo, filosofo e mistico indiano (1872 – 1950), lo colpì nel più profondo dell’anima, facendolo finalmente aprire alla dimensione spirituale della vita. Egli lo raggiunse in India e quando tornò in Europa disse che aveva finalmente “trovato la chiave della sua vita”.

Scanziani ha viaggiato molto tra i vari continenti, coltivando l’amore per la saggezza dei popoli. La sua grande sensibilità emerge dai suoi scritti, talvolta la sua è penna di scienziato e contemporaneamente di poeta. E’ il caso del saggio “Avventura dell’uomo” del 1971, in cui ripercorre la straordinaria avventura della nascita e dello sviluppo psicofisico dell’essere umano in una narrazione ricca di immagini suggestive e colpi di scena. Trapela ad ogni pagina la sua passione per la vita unita all’interno di un orizzonte trascendente, in cui domina il rispetto assoluto e la profonda gratitudine per il Creatore dell’universo e le sue creature.

Dal libro “Avventura dell’uomo”

“Non sappiamo quand’è cominciata la nostra vita, sappiamo solo di essere vivi.

La vita inizia dal concepimento

Ci dissero la nostra data di nascita e da allora l’andiamo ripetendo… eppure la nostra esistenza non è cominciata né dal ricordo né da quella vecchia fotografia. La nostra esistenza non è cominciata neanche dalla data di nascita che andiamo ripetendo: noi eravamo prima, noi già eravamo nel grembo materno, noi siamo vivi da quando i nostri genitori si sono abbracciati.

La nostra avventura è principata nel calore e nel buio della matrice, nel mistero dei germi e delle cellule… all’alba della nostra esistenza noi siamo stati microscopici.

Il germe maschile e la cellula femminile

Abbiamo cominciato ad esistere quando un germe maschile, dopo lungo viaggio, finalmente incontrò una cellula femminile che cercava, cento volte più grande di lui e la penetrò fino a disparirvi totalmente.

Quel germe era l’eroe d’una prova estenuante, era il solo superstite fra duecento milioni di compagni perduti. Ognuno di noi, vivi, è figlio di un vincitore.

La cellula è apparsa da un’ansa e viene incontro ai vincitori, lenta. I mille s’accalcano verso di lei, frementi.

Uno solo avanza diritto e solo: è l’eroe? Nel suo corpo spilliforme v’è prodigiosamente racchiusa la memoria dell’umanità. Egli porta con sé le eredità prossime e quelle lontane. Porta con sé la linea del naso paterno e la tenacia del nonno, porta con sé la vivacità della stirpe e la pelle bianca della razza. Egli ha nitido il ricordo dei secoli e dei millenni. Egli è il passato che preme sul presente, per trarne una forma simile alle antiche, eppure nuovissima. Eccolo avanzare nel suo spazio infinitesimo: l’immortale.

In questo nostro corpo perituro, v’è un elemento immortale. Il corpo è una moltitudine di cellule destinate alla morte, salvo una. Moriranno le grigie cellule cerebrali che pure hanno partecipato al miracolo del pensiero, moriranno le nostre cellule cardiache che pure hanno palpitato coi sentimenti, moriranno le obbedienti fibre dei muscoli. Tutte moriranno, salvo una: il germe.

Esso è sempre il medesimo e ogni padre l’ha ricevuto e l’ha trasmesso, eguale, dopo Adamo. Il germe non muore mai; passa identico di generazione in generazione e si direbbe che il prezzo della sua perennità sia pagato dal sudore dei padri e dal dolore delle madri.

Duecento milioni erano partiti, uno è giunto: la cellula gli va incontro e ormai si toccano…

Il viaggio nuziale e la danza

Il viaggio nuziale degli sposi continua per sette giorni. Chiusi al mondo, rotolano in un’inerzia che s’abbandona alla corrente liquida, declive della matrice.

In quell’apparente languidezza avvengono straordinarie metamorfosi: tutto si trasforma nella loro parte più intima, nei nuclei, sede dei cromosomi, creature minutissime, filiformi e colorabili.

Durante il viaggio, i due nuclei del germe e della cellula s’approssimano, combaciano, si stringono finché ogni barriera cade e i cromosomi maschili si trovano davanti ai femminili. Allora cominciano a danzare.

Dianzi erano soltanto un confuso groviglio di filamenti inerti: adesso, posti gli uni di fronte agli altri, si muovono, s’inchinano, si dispongono a corona e a stella, si raddoppiano ritmicamente, vortigano in una quadriglia, si suddividono in due schiere e in due poli. Così principia la formazione del nostro corpo.

Al termine del viaggio, non esiste più il germe maschile, non esiste più la cellula femminile: è nato qualcosa di nuovo, è nato un embrione umano, unicellulare.

Ma esso si moltiplica per due, per quattro, per otto e continua con una prodigiosa progressione geometrica che in breve lo porterà dal suo universo infinitesimale fino al nostro mondo e alle nostre misure. Questo accrescimento di cellula in cellula si adempie secondo un delicato piano d’armonia e d’architettura, fra le danze ritmiche dei cromosomi.

Più vive chi più ama

Come mai la vita, che prima ci appariva sotto l’aspetto della discordia e della disputa, sembra ora intenerirsi al congiungimento d’un germe e d’una cellula? La vita non è soltanto una forza che separa e pone in guerra tutte le sue creature. E’ anche un’energia che le unisce. L’altra faccia della guerra è la pace, l’altra faccia dell’odio è l’amore. La vita è forza e insieme è amore. Chi più è forte più ha vita, ma più vive chi più ama.

La donna già madre

Durante il viaggio nuziale di sette giorni, la donna che porta nel grembo tante e così straordinarie avventure, neanche le suppone. Mangia, beve, dorme, passeggia, s’agghinda, ignara d’essere madre. Quanto al padre, nemmeno è sfiorato dal sospetto. Sovente il suo gesto di seminatore, vecchio ormai di una settimana, è per lui caduto in un completo oblio… La vita chiede solo un breve incontro: intenso o distratto, non importa…

L’embrione

L’embrione, dopo aver navigato per una settimana sui flutti liquidi, è giunto alla matrice, isola della perenne giovinezza, isola delle cellule fini, lisce, vellutate, leggiadre nelle loro forme tonde o stellari. Sono cellule sempre primaverili, perché si rinnovano di ventotto in ventotto giorni, secondo le fasi della luna. In quest’isola innocente, l’embrione sbarca, pirata.

Vi s’impianta, uccide migliaia di cellule e se ne nutre, si scava una nicchia fino a trovare il sangue e in quella tana si pone, ingrandendo di giorno in giorno, simile al cuculo che, covato in un nido altrui, ingrassa a danno dei figli veri. Così l’embrione diventa presto il tiranno dell’isola, dove tutto deve inchinarsi al suo vantaggio. La mucosa arretra davanti all’invasore, le ghiandole sono respinte, i vasi si congestionano e siccome il vampiro richiede sangue e sangue, le arterie e le vene divengono enormi e tortuose, nello sforzo di nutrire l’ospite divenuto oppressore.

L’amore per un figlio fa donare la vita

Giunti in quel ventre, noi ci siamo espansi con un egoismo illimitato. Abbiamo suscitato nella donna che ci portava, appetiti nuovi e ineluttabili, stravaganti. L’abbiamo imbruttita macchiandole il viso e deformandole l’addome. Le abbiamo imposto sonnolenze irresistibili e tristezze inconsolate.

L’abbiamo impaurita col pensiero dei dolori che le avremmo procurato alla fine, pronti com’eravamo ad ucciderla, pur di nascere e vivere.

Nostra madre sentiva che, nel suo grembo, noi non eravamo un prolungamento di lei stessa: eravamo un altro. Sentiva che noi avevamo messo in moto, dentro di lei, un meccanismo implacabile, pronto a sovrechiarla e distruggerla. Tuttavia ella ci ha amato.

La vita, che è sempre forza e amore, ha chiesto imperiosamente a nostra madre di dare forma ad una nuova avventura umana: con l’amarci, nostra madre ha acconsentito…

Nessuno nasce solo

Durante i duecentottanta giorni in cui abbiamo dormito nel grembo, intorno al nostro sonno non stavano solamente gli antenati, con le loro eredità dominanti e recessive. Dietro a noi s’elevavano altre grida, non umane.

Non siamo soltanto apparentati a tutti gli uomini del presente e del passato, siamo legati anche a tutti i viventi. Nessuno nasce solo. In comune con le scimmie abbiamo la mano e il pianto. In comune con gli altri mammiferi abbiamo le labbra e il primo ricordo della poppa materna; con i vertebrati abbiamo in comune il battito del cuore; con tutti gli latri animali abbiamo in comune la paura, l’amore, la fatica e la pena…. In noi vi è perfino l’eredità minerale, depositata nelle ossa: il calcio, i Sali, il cemento. Il nostro scheletro, muto e pesante, ci apparenta alla pietra.

L’uomo è l’erede universale.

Ogni creatura, concepita nel grembo d’una donna, deve ogni volta ricominciare da capo l’avventura del mondo.”

Susanna Primavera