Elevarsi per nutrirsi del divino che rende felici è vincere la morte. “Ciò che muore, cade nella vita.” E’ quanto emerge dal libro “Entronauti” del 1969 di Piero Scanziani. Leriflessioni del giornalista e scrittore in giro per il mondo alla ricerca dei veri, ultimi mistici rimasti, ci aprono la via della saggezza e dello spirito in una modernità che non conosce più il significato della trascendenza e dell’ascesi. E ci ricorda le parole della famosa canzone di Franco Battiato “E ti vengo a cercare”: “… non dovrei accontentarmi di piccole gioie quotidiane (ma) fare come l’eremita che rinuncia a sé…”

L’autore, scrittore sensibile e delicato che abbiamo già conosciuto per un’altra sua opera (leggi qui), spinto dalla ricerca di senso sul destino umano, viene inviato per il mondo dal Direttore del suo giornale, ed egli si fa garante di articoli ricchi di senso e profondi per cultura e spiritualità. Dal racconto dei suoi viaggi, ho scelto oggi di raccontare qualche momento significativo della fine del suo viaggio, nel suo passaggio in India ed infine in Grecia.

L’India della spiritualità

Egli giunge in India alla ricerca di saggi, a cui ha dato il nome di “entronauti”, proprio nei giorni della conquista della luna ad opera dei primi “astronauti”, pensiamo a Neil Armstrong il 21 luglio 1969. Gli entro-nauti, sono invece coloro che ricercano una via dello spirito, un equilibrio superiore che li renda felici; sono persone capaci di elevarsi al di sopra di ogni piacere e bisogno materiale. Sono capaci di bastare a se stessi, talvolta anche in condizioni di estrema povertà e solitudine. Essi sanno raggiungere un’armonia personale straordinaria, che li rende belli, superiori e autorevoli. Sono dei mistici, vivono di ascesi.

E’ in India, più che altrove, che egli comprende appieno cos’è lo spirito, “non astrazioni consolanti, né effusioni sentimentali. Lo spirito è una forza possente, anche terribile”. Egli giunge anche nella famosa città Varanasi, sul fiume Gange, dove i corpi dei cadaveri vengono bruciati all’aria aperta, come la cosa più naturale del mondo. In India, infatti, la vita e la morte vengono accettate senza discutere.

Alla fine di questo penultimo viaggio, il giovane saggio e casto Kapìla lo conduce al Tempio della Riva e lì i due si salutano. L’autore si ritrova in un luogo benedetto, solo, davanti all’Oceano indiano. Immergersi nelle acque del mare è liberatorio e simbolicamente egli rinasce. Resta a dormire, solo, nel tempio. Tra le mura dei templi, i miti raccontano le storie eterne della vita. “Cos’è un mito? Non una favola, non un impulso, non un’idolatria. Il mito è una realtà suprema narrata con una parabola, né si potrebbe altrimenti.” Fra cielo e terra notturni, il suo animo s’interroga…

Cosa ho lasciato?

Ero un uomo meschino fra avidità e timori, ero un uomo inquieto, scontento della vita, pavido della morte.

Cosa ho trovato?

“Invece dell’inquietudine la pace, invece della paura la serenità, invece del vuoto la ricerca. Invece del disgusto la speranza. E ho trovato il divino”.

Finché all’alba, il suo stato d’animo di tranquillità e pace si trasforma in una gioia mai provata prima: “Cateratta vibrante, mi penetra colma circonda. Mai provata delizia, inebriante fiume rapitore, impeto di grazia, voluttà sfavillante entro i miei pallori. Come posso dirlo e come posso tacerlo?”

Ma il miracolo finisce presto, piano piano la mente riprende il controllo della sua persona e non gli dà tregua con i suoi infiniti ragionamenti, le sue spiegazioni e i suoi limiti. La mente che può calmarsi solo spiegando a modo suo ogni cosa successa…

Il mistero dell’India non è la fame, il suo segreto è la gioia

“La gioia trascendente, la trasformante, la suprema, la divina, l’unica e le altre sono tutte imitazioni sbiadite. La gioia che ognuno cerca e finché non la trova, non ha pace. La gioia inalterabile che il tempo non invecchia, che il corpo non macchia, che ti dà la certezza e ti salva dalla solitudine. La gioia, non in un paradiso postumo ed evanescente, ma qui, su questa terra, adesso, in questo corpo.”

Il lungo viaggio si conclude in Grecia

La vita m’ha sempre spinto: non ho scelto, ho dovuto.” Dopo  l’America, l’Europa, la Persia (Iran) e l’India, egli sente il bisogno di andare in Grecia, sul Monte Athos, la Sacra Montagna. “Sono attratto dall’Athos da una speranza, sono spinto dallo sconforto. Di ritorno in Europa dall’India, mi è parso di trovarmi in un manicomio. Come se avessi raggiunto laggiù un equilibrio che qui si squilibrava, come se laggiù avessi trovato una sensibilità nuova fresca delicata, inadatta alle asprezze della città occidentale…

Le nostre moderne città

“… città di violenze: automobili aggressive, pedoni imprecatori, lotte a coltello per un posto, odii implacabili fra individui e gruppi e, per svagarsi, la sparatoria omicida del cinema o l’urlo atroce dello stadio. Città di furori satirici: nudità femminili da per tutto, donne perpetuamente in fregola, uomini in permanente libidine, inversioni esibite, manie propagandate, sesso onnipresente onnipotente obnubilante. In tale cosmo di vibrazioni frenetiche, ho perduto ogni mio bene: la serenità, la presenza, la gioia… deve pur esistere da qualche parte chi ha l’incontro sacro nel nome di Cristo.”

Presso gli ultimi eremiti

Gli anacoreti cristiani sono gli ultimi eremiti che il nostro “eroe” si mette a cercare. Nel monastero Pantacratoros trova documenti preziosissimi quanto antichi come la Philocalia, e la copia originale del famoso “Racconti del pellegrino”. Ed è lì che incontra Macario, 40 anni circa, che si trova all’Athos da vent’anni. “Vive su di un albero in un capanno che s’è costruito. Non sempre scende, non sempre parla, spesso canta, talvolta scompare. Le bestie gli stanno d’attorno, senza timori. D’inverno il monastero gl’invia un po’ di cibo. Nelle altre stagioni lo nutre la foresta. E’ un hezycasta monologista: nell’occhio del cuore respira giorno e notte la parola di Gesù

Dimenticarsi e cercare l’anima

Qual è il tuo mestiere?

“Scrivo.”

“Bene, ascolta. Ho vissuto fra la gente. Sembra di smarrirsi, perdersi, dimenticarsi. L’unico vero peccato è dimenticarsi. Ma c’è rimedio.”

“Rimedio al dimenticarsi?”

“Sì, Fa la tua parte, la parte che ti è data da chi vuole me anacoreta e te scrittore. Scrivi, impegnati, ma non curarti del risultato. Lascia a lui il risultato, lascia che lo adoperi per i suoi fini. Il risultato è una gran riuscita? Bene. E’ un gran fallimento? Bene. Ricchezza? Povertà? Bene. Non ci riguarda. Se ci liberiamo dalla smania del risultato, se ne strappiamo la radice, siamo in salvo. Allora operiamo per lui, lui sempre presente, presente la sua gioia, capisci?

Ma la gente? Le donne t’allettano, gli uomini ti aggrediscono… diventi frenetico e disperato.

“C’è il rimedio. Guardali nelle pupille. Non gli occhi, la pupilla. Se guardi bene, trovi nella pupilla l’anima. Proprio, la trovi. E se guardi l’anima, incontri la presenza, la stessa presenza in tutti, la senti davvero e finisce la frenesia. Non mi credi? Prova. Finisce la frenesia e comincia la fraternità.”

 

La morte non c’è

Giunge infine a Karoulia, ossia la carrucola, con strapiombi di roccia e dirupi alti trecento metri raggiungibile soltanto calandosi nella roccia a strapiombo sul mare turchino, un mare aperto dove lo sguardo si dilata all’infinito e l’animo si dilata nella stupefazione.

Stringo gli occhi per resistere alla vertigine. Come torneremo indietro? Ma ecco laggiù il luogo con minuscole capanne sparse tra le grotte… Continuiamo a calarci, aggrappandoci a grosse catene di ferro, ciondolanti, finché appare la prima casupola: è quella di Nicodemo, alto, dritto e scarno… parla russo: “Figliolini cari, benvenuti benvenuti, entrate entrate

“Aspetti la morte? La morte? La morte non c’è.

Ho conosciuto in Kapìla la sapienza, conosco in Nicodemo la santità. Ecco altri tre anacoreti: Serafino della carrucola, Pakomio dell’estasi e Filoteo della caverna. Sono preso dagli incanti: l’incanto di Nicodemo, l’incanto di Serafino, l’incanto di Karoulia, cielo roccia mare solitudine silenzio. E’ lo stesso fascino che mi vinse al Tempio della Riva, davanti all’Oceano Indiano. E’ lo stesso senso del traguardo.”

L’uomo che raggiunge il sublime

Pakomio è seduto a terra, le spalle contro una capanna fragile, pochi pali, frasche, lamiera. Sta immobile, non s’accorge di noi. Certamente gli giriamo intorno… Ha le palpebre abbassate, il volto sereno, sulle labbra un sorriso lieve, ermetico, tutto interiore. E’ straordinariamente bello. L’uomo che raggiunge il sublime, pur nella solitudine, ne fa partecipi tutti gli uomini, per osmosi. Egli solo è il grande benefattore.”

Dunque, questa è l’estasi

Lo fisso, fra curiosità e reverenza. Respira minimamente, le mani abbandonate sul grembo, il volto d’alabastro dorato e luminoso. Questa è l’estasi, incontro fra l’uomo e la divinità. L’estasi che dà il potere di sovvertire le genti. L’estasi di San Paolo e di Budda, di Plotino e d’Alì, di Lao Tze, di Krishna, dei tanti che hanno rifatto il mondo. L’estasi donde ci viene tutto ciò che ci possiede e che ci eleva. L’estasi che impaura la nostra mente piccina.

Dunque, questa è la morte

M’allontano verso lo spiazzo verde. Lì quasi inciampo nello scheletro, sdraiato tra l’erba. E’ uno scheletro rosso, lungo, il cranio senza mandibola: ha preso il colore della grotta in cui fu sepolto. Quel che resta di maestro Gregorio, qui anacoreta per cinquant’anni… Ho percorso il mondo per fuggirla ed eccola qui: m’è venuta incontro. Ne ho tanto parlato: ora la vedo… Contemplazione della morte, esercizio da anacoreta. Nel tramonto mediterraneo, appaiono le prime stelle…”

Susanna Primavera